I miei racconti di Genova col suo prefetto venuto da Malvito

Tra poche ore tutti scriveranno di Genova e dell’orgoglio italiano per il nuovo ponte di Renzo Piano. Anch’io avverto l’esigenza di doverlo fare. Il presidente della Repubblica, Sergio Mattarella, la cui auto il prossimo tre agosto l’attraverserà prima di ogni altra, sarà  invece ricevuto e accolto la vigilia dell’inaugurazione del ponte in Prefettura dal prefetto Carmen Perrotta –  mia compagna di scuola  – cresciuta e formatasi nel cuore dei vicoli di Malvito, delle cui aurore tinte di vampate di rossore sui tetti delle case, come del profumo di ginestra tutt’intorno e sulla collina, avrebbe fatto il suo timbro e, al tempo stesso, il suo diario, che di tanto in tanto riapre  per rinverdire i suoi e i nostri ricordi più teneri. E, anche, belli.

Della città della lanterna s’irradia in questi giorni una luce sull’Italia intera e si parlerà, come già si sta parlando, di un modello da replicare per le grandi opere pubbliche. Il ponte – che visto da sotto sembra la chiglia di una nave lunghissima che galleggia nel cielo – si celebrerà con tanto di sirene e di frecce tricolori. Insomma, tutto l’orgoglio italiano si riunisce a Genova.

Io intendo, qui, raccontare del prefetto, e del nostro orgoglio, e di un’altra Genova: quella silenziosa e dietro le quinte dei miei specialissimi incontri, avuti da fanciullo e da adulto.

L’Italia riparte da Genova. In verità, è ripartita da Genova all’indomani del disastro con scelte importanti. E non solo tecniche e tecnologiche. Ma di un’attenzione particolare per la città che ci si augura possa estendersi all’intero Paese. Tra queste scelte, una riguarda proprio la nomina lo scorso anno di Carmen Perrotta a prefetto della città ligure. Cioè, una delle più prestigiose e ambite sedi prefettizie d’Italia. Un vanto che, oggi più di ieri, rivendichiamo alle nostre latitudini con sobrietà, benché l’orgoglio di tale nomina – e dei suoi successi in punta di piedi – meriterebbe, e assai comprensibilmente, tutta l’enfasi  e la gioia del mondo.

Ma tutto è più sobrio a Genova, e questa linea di sobrietà vogliamo rispettare, come peraltro ha fatto lo stesso Papa Bergoglio, che, avvertendo l’esigenza di cambiare, nomina ad arcivescovo della città un prelato in saio e sandali per curare le ferite della città; un prelato poco conosciuto fino a poco tempo prima dalle stesse gerarchie ecclesiastiche, vale a dire il frate Marco Tasca.  Insomma, Genova, da sempre laboratorio politico-culturale, diviene anche laboratorio religioso. E per la Chiesa arriva il momento dell’affermarsi del clero “del grembiule”, cioè della politica di servizio ai più deboli.

Mentre per lo Stato, con la nomina di Carmen Perrotta, la prefettura è divenuta ancora più presente, sia pure nel silenzio, nella sua quotidiana azione di ascolto dei bisogni dei cittadini, delle istituzioni e del lavoro. Come nella lotta, fatta di controlli e ispezioni, contro le infiltrazioni mafiose nei cantieri e negli enti locali. Insomma, una Prefettura sempre più a servizio dell’intera comunità.

Ecco, non parlo del sindaco Bucci e del governatore Toti. E di quello che di buono o meno buono hanno fatto in questi mesi ed anni. Altri, e con più conoscenze e competenze delle mie, lo faranno certamente.

Io intendo raccontare un’altra città:

Genova è la città della mia prima infanzia. E’ la prima città della quale ho sentito parlare. Anzi, cantare. Prima ancora di Cosenza – o di Atene, Roma o Cartagine dei libri sussidiari scolastici – Genova colorò la mia immaginazione e fantasia:

“Nella città di Genova / c’è una ragazza bella.

Il re che l’ha saputo / la volle andar a veder...”

Quella bella ragazza sarebbe diventata “… la regina / che sposa il nostro re!”  Cioè, la filastrocca che all’asilo infantile le suore ci facevano udire e cantare all’infinito nel tentativo di rabbonire i nostri eccessi di irrequietezza bambina. Il tema era ancora lontano dalle nostre sensibilità e dalle nostre passioni. Ma il motivetto ci incantava. Fungeva quasi come la “papogna”, la brodaglia di “droghe leggere” di origine vegetale che si dava ai bimbi più irrequieti per metterli a dormire.

Genova sarebbe tornata più tardi ad essere la “mia città”.

Amo Genova, la città dove, quattordicenne  non accompagnato, giunsi la prima volta il 30 o il 31 di maggio del 1972  per avviarmi all’indomani a servire piatti e sorrisi ai tavoli di ristoranti e alberghi sulla Riviera di Ponente. Giunsi alla stazione di Genova Principe alle sei del mattino con un treno espresso, preso a Paola, proveniente da Palermo e diretto a Torino, per felicemente ritrovarmi di lì a poco in mezzo ai sentimenti e ai cuori, più che ai muscoli o agli umori, degli operai coi quali mi confondevo – ammesso che fosse stato possibile –  facendo coincidenza sul treno locale per Savona: loro erano diretti alle fabbriche metallurgiche e meccaniche  di Sampierdarena, Cornigliano e di Sestri Ponente; io a Savona per proseguire per la Riviera di Ponente.

Avrei replicato questa felicità per cinque volte, una volta all’anno, dopo la terza media sino alla maturità. E per cinque anni sul finire del mese di maggio, o nei primissimi giorni di giugno, vi era un mattino quando scendevo alle sei circa alla stazione di Genova Principe. Quel mattino era sempre preceduto  da una notte d’emozione,  totalmente passata ad occhi aperti davanti al finestrino, a catturare luci e bagliori di isolati lampioni o tetti di borghi. O ombre allungate di cipressi, cime di colline o sbuffi di fontane di dormienti stazioni. Insomma, da ritagli di paesaggi urbani o rurali, da un lato, e, dall’altro, di onde e letti increspati di mare sotto il lume lunare.

Con quel treno, complice a sua insaputa delle mie razzie di quattordicenne, mi sarei arricchito d’un cospicuo bottino di italiche bellezze notturne. Un altro treno, di primo mattino, cui i controllori sbattevano le porte con tutta la forza di cui erano capaci, mi avrebbe fatto condividere il viaggio assieme ai metalmeccanici genovesi che con compostezza tutta operaia riempivano i vagoni per raggiungere l’Italsider di Cornigliano e le altre fabbriche metallurgiche  e meccaniche di Sampierdarena o il grandioso cantiere Ansaldo di Sestri Ponente.

Tra quegli operai – sui quali la nuova luce dell’alba  giungeva diritta come un tiro di mitraglia dai finestrini – molti leggevano L’Unità, mentre altri parlavano già di politica. Altri ancora, comodamente seduti, rubavano agli orologi che correvano gli ultimi minuti di quiete, prima di gettare l’anima e trovare  il sudore sapido di fatica sotto il luccichio di spade di polvere di ferro e di acciaio. Qui, con loro, mi sentivo felice. Ero felice di sentirmi parte, sia pur per un momento e senza alcun “titolo”, di quella mitica classe operaia di Genova. Lì, in quella carrozza gremita, seduto gomito a gomito con i metalmeccanici il cui fiato era divenuto il mio primo respiro del mattino, li guardavo rapito.

E li  rivedevo, immaginandomeli con la mente,  nei loro scioperi che erano capaci di mettere in ginocchio qualunque governo, quando scendevano in piazza a protestare nei loro coloratissimi cortei con bandiere e tamburi di latta, cartelli e slogan, come li vedevamo combattivi e festosi nel telegiornale serale.

Potevo essere più felice? O dovevo chiedere di più dalla vita?

La mia felicità non aveva prezzo: ero in mezzo a loro satollo di gioia, benché solo per un breve tragitto… tanto che quando poi scendevano a Sampierdarena o a Sestri Ponente, mi spiaceva  di vederli andare via. E di non poterli seguire. Perdevo nella luce dell’alba i miei unici, e irripetibili per un anno, paesaggi di marineria coi volti ispirati e le voci essenziali e autentiche di  lucidi operai e metalmeccanici.

Ecco – Genova – un tratto inalterabile della mia vita.

Ci sarei tornato altre volte da adulto per visitare l’Acquario e più volte per  rapide immersion negli eventi del Festival della Scienza. E per visitare i Musei di Strada Nuova per incontrare qui a Palazzo Rosso “Clorinda” – l’eroina persiana – che  “libera Olindo e Sofronia dal rogo” supponendo l’innocenza di costoro, la cui resa altamente scenografica rende grande merito al pennello di Mattia Preti, il Cavalier Calabrese. Certo, poco più in là, c’è a Palazzo Bianco uno splendido Caravaggio: “Ecce Homo”. Ma – mi perdoni Caravaggio – qui prevale tutto il mio malcelato sentimento di “patriota calabrese “.

A Genova sono poi andato una volta per vedere nel Porto antico l’isola  sulle chiatte, una vera piazza sul mare. Uno spazio che si deve alla genialità di uno dei più grandi genovesi, Renzo Piano, che, dalla piazzetta di seicento metri quadri sulle chiatte che galleggiano sull’acqua, offre la vista di Genova dal mare: un’immagine che prima era possibile solo per i naviganti.

Un’idea che ho copiato a Malvito, da sindaco, col piccolo ampliamento a mezza luna della terrazza in piazza Monumento, creando così assi e traguardi visivi prima impossibili: ora dal fondo della rotonda della terrazza si abbraccia con lo sguardo la torre di Parapuorto, la chiesetta della Schiavonea, il Timpone, la chiesa madre, il castello, il municipio, la Difesa, la Fischija con l’arco e anche il tetto a capanna della casa materna del prefetto di Genova. Insomma, tutto l’antico borgo medievale, che prima il visitatore, come lo stesso cittadino malvitano, non poteva cogliere da piazza del Monumento. Senza contare che la rotonda protesa di pochi metri sulla valle sottostante consente pure il collegamento visivo con la nuova area di espansione urbana di Malvito Piana, un tempo anch’essa non raggiungibile visivamente.  Nulla di speciale, ma la lezione genovese di Renzo Piano risuonò come utile fattore urbano e di scelta urbanistica anche a Malvito.

Sia beninteso: una piccola cosa.

Mentre il ponte di Genova, il cui skyline  svetta su Genova a meno di due anni dal crollo del ponte Morandi, è un’opera di portata mondiale. Lo dicono i numeri: 17.400 tonnellate d’acciaio; 40 metri l’altezza dell’impalcato; 1800 tonnellate il peso di ciascuna delle maxi campate; 67.000 metri cubi di calcestruzzo, una volta e mezzo l’Empire State Building di New York; 18 le pile (i piloni); 45 metri di altezza di ogni pila, più 50 metri nel sottosuolo; 30 metri la larghezza complessiva; 1.067 metri la lunghezza complessiva, il triplo della Torre Eiffel di Parigi. Eppoi centinaia e centinaia di operai impiegati nell’opera; 20 cantieri aperti in contemporanea; 6 turni di lavoro paralleli: sottoterra, a terra, in elevazione, in quota, dentro l’impalcato, sopra la soletta; e, soprattutto, nessun incidente mortale nel cantiere.  Chapeau a Renzo Piano, progettista e direttore dei lavori, alle imprese consorziate in “Per Genova” che hanno costruito il ponte, al ministro delle Infrastrutture De Micheli, al sindaco di Genova Bucci, al Governatore Toti e al prefetto di Genova, Carmen Perrotta. A ciascuno di loro Chapeau per la loro parte di competenza e responsabilità.

Il riscatto di Genova è il riscatto dell’intero Paese e sapere che di questo riscatto è parte importante una nostra concittadina, prefetto della città – e per me anche compagna di scuola – ci inorgoglisce.  Come mi inorgoglisce sapere che nella stessa città della lanterna studia medicina con grande profitto un’ altra giovane promessa malvitana, Luca Novello, che, d’estate, per non pesare troppo sulla famiglia, non si risparmia in lavori stagionali e a tirare la sabbia in quei stabilimenti balneari a Pietra Ligure sulla Riviera di Ponente. Un lavoro di aiuto bagnino durissimo soprattutto per questa faticosa incombenza di dover provvedere ogni sera a tirare la sabbia. Un lavoro durissimo che feci anch’io negli anni Settanta una sola volta e per pochi giorni ai Bagni Colombo, uno dei più prestigiosi di Spotorno, affiancando mio cugino Cesare, che lì faceva il bagnino.  Una fatica eccessiva e insopportabile per un quattordicenne: mollai tutto per più agevoli servizi di sala negli alberghi. Mio cugino Cesare, dopo la maturità conseguita presso l’Istituto nautico di Savona, sarebbe rimasto “nel settore”, passando però da bagnino a navigante. E come capitano di navi mercantili navigò sulle rotte dei mari di mezzo mondo.

A Luca, che studia alla casa dello studente di San Nicola in Salita della Madonnetta a  Castelletto di Genova, auguro ovviamente il meglio: la ricerca o la carriera universitaria o la direzione di istituti e gabinetti scientifici importanti. Ma se anche dovesse prevalere, finiti gli studi e conseguita la laurea in medicina, il sentimento anche per la politica, oltre che l’interesse per la scienza, reputo che Malvito non potrebbe avere di meglio: la nostra cittadina potrebbe contare su di un giovane che già vanta solide letture e una solida cultura.

La foto che accompagna il titolo di questo lungo racconto ritrae la giovane Carmen Perrotta qualche mese prima degli inizi della sua carriera al Ministero degli Interni. Più precisamente, a Rognes in Provenza, dove partecipò agli incontri delle delegazioni di Malvito e Rognes per il rilancio dei rapporti e le relazioni tra i due Comuni. Anche in quell’occasione Carmen Perrotta non fece mancare il suo contributo tutto rivolto alle opportunità europee e alla necessità di costruire solide reti per superare la marginalità politica, prima ancora di quella di periferia geografica. Lì, grazie anche al suo già autorevole contributo, si posero le basi per la creazione di un importante patto culturale che portò alla progettazione e alla realizzazione del Malvito Arte Festival Calabria Provenza, che ebbe notevoli successi di critica e di pubblico  tra la fine degli anni Ottanta e gli inizi dei Novanta. Un’esperienza che non passò inosservata al Congresso Europeo dei Comuni d’Europa che, riunito a Losanna dal 3 al 5 ottobre 1991, dedicò al Comune di Malvito un riconoscimento nella Sezione Sviluppo Locale con speciale menzione per il Festival. Un riconoscimento per cui io, come sindaco di Malvito, venni chiamato quell’anno stesso nel Consiglio Nazionale dell’Aiccre in Piazza di Fontana di Trevi a Roma, insieme ai sindaci dei Comuni di Lucca, Pietrasanta, Bucine, Campogalliano le cui azioni europeiste erano state oggetto di premi, riconoscimenti e apprezzamenti nella stessa assise di Losanna. Malvito era l’unico Comune  premiato del meridione d’Italia.

Ma tale onore lo ricevette, prima ancora negli anni Settanta, Oscar Principe, sindaco di Malvito, che, per i meriti europeistici del Comune, venne chiamato nella stessa importante Assemblea dei Comuni d’Europa. A notificargli il provvedimento il 15 dicembre del 1971 fu proprio il sindaco di Genova, Giancarlo Piombino, quale presidente del Consiglio nazionale, dando esecuzione ad un apposito deliberato del VI Congresso nazionale dell’Aicce svoltosi a Torino.

Ecco, torna – col sindaco di Genova che scrive a quello di Malvito – la città della lanterna nei miei racconti.

Di Carmen Perrotta – prefetto di Genova e prima ancora prefetto dal 2011 al Dipartimento per le libertà civili e l’immigrazione o di esperta  della lotta contro le infiltrazioni mafiose o, in tempi più lontani, redattrice della rivista  del Ministero dell’Interno “Amministrazione Civile” e autrice di numerosi articoli su riviste specializzate – potrei scrivere per ore.

In conclusione, però, preferisco le ragioni del cuore e le immagini più lontane e più tenere della nostra amicizia e frequentazione: i compiti fatti qualche volta insieme;  le ore e le tante volte passate ad ascoltare i racconti del padre Pierotto, un gigante d’umanità e di altissima condotta morale, il cui ricordo è ancora tanto vivo; le feste di compleanno con balli di lenti e shake alle quattro del pomeriggio: tutto sarebbe rigorosamente finito prima delle sette di sera, cioè prima di cena. Eppoi le partite della locale squadra di calcio che avrebbe consentito alle ragazze di scendere la domenica pomeriggio sino al campo sportivo; e le passeggiate subito dopo in piazza del Monumento a chiacchierare di tutto, e talvolta di niente, come in un lungo tempo sospeso per prepararci.

E lei si sarebbe preparata molto bene!

Un abbraccio a te – prefetto di Genova – che vivi da protagonista, dopo essere stata sentinella guardinga e rigorosa nelle retrovie dei controlli nei cantieri,  questa speciale e straordinaria celebrazione del nuovo Ponte.

Se Genova è oggi – come effettivamente lo è – una lezione per il Paese e se la stessa città della lanterna è divenuta incontestabile modello, che addirittura si vuole replicare, molti di questi meriti sono anche tuoi.

Perciò, grazie Carmen di farci sentire oggi tutti genovesi!